con Mohamed Abdelkarim, Simon Asencio, Miriam Cahn, Giulia Damiani & Le Nemesiache, Alessandra Ferrini, Alfeno Liboni, Belinda Kazeem-Kamiński, Vanja Smiljanić
a cura di Simone Frangi e Barbara Boninsegna
curatela esecutiva Maria Chemello
Per visitare la mostra su appuntamento scrivere a info@centralefies.it
KAS è una mostra collettiva di natura performativa che costituisce il terzo episodio di “Trilogia anti-moderna”, ciclo di esposizioni che Centrale Fies dedica da alcuni anni alla relazione tra gli oggetti e le loro attivazioni, rivalorizzando forme di sapere (affettivo, somatico, visuale) censurate o soppresse dalla modernità sesso-coloniale occidentale.
Dopo la mostra collettiva “Storia Notturna” (2020) dedicata all’esplorazione di prassi di stregoneria performativa e la bi-personale di Josefa Ntjam e Joar Nango (2021) impegnata nella decostruzione del concetto eurocentrico di genealogia e delle versioni orientalizzanti e depoliticizzate dell’idea di indigeneità, KAS riflette insieme ad un gruppo di artisti e artiste internazionali sulla funzione di topoi mitologici e della fabbricazione collettiva immagini di “urbanità primigenie” nei processi fondativi delle “comunità immaginate”.
Il titolo prende infatti le mosse da Kas, una città premoderna che sarebbe esistita nel sito di Fies prima della grande frana che creò nella preistoria il biotopo delle Marocche e testimoniata dal ritrovamento di un laterizio – sulla cui “veridicità” e “autenticità” gli storici ancora dibattono – e tenuta viva da fabulazioni popolari e dalla produzione pittorica del farmacista locale Alfeno Liboni.
Kas diventerà il punto di partenza di artiste ed artisti per articolare una serie di questioni sociopolitiche che sottendono a tali immaginari, spesso considerati innocui, ma in realtà innervati da forme di lotta critica nei confronti di architetture oppressive: archeologia e orografia speculativa come fonte di legittimazione dei nazionalismi o la loro ri-appropriazione funzionale in funzione anti-nazionalistica; violenza simbolica e materiale dei processi di fondazione nonché della loro trasmissione e riproduzione attraverso archivi materiali e visuali o attraverso nozioni egemoniche di patrimonio e eredità culturale; l’artificialità del tempo della storia e della sua tripartizione in passato, presente e futuro; l’affermatività della nozioni speculative di futurità e catastrofe; la riforma del concetto artificiale di “oggettività” e le possibilità della sua erosione.
Come le altre due mostre della triologia, KAS avrà una durata “statica” di due mesi e sarà attivata con un ciclo di performance in occasione di Live Works Summit 2022.
Alfeno Liboni
Untitled (1996)
acrilico su tavola
Il titolo della mostra prende le mosse da Kas, una città premoderna che sarebbe esistita nel sito di Fies prima della grande frana che creò nella preistoria il biotopo delle Marocche e testimoniata dal ritrovamento di un laterizio – sulla cui “veridicità” e “autenticità” gli storici ancora dibattono – e tenuta viva da fabulazioni popolari e dalla produzione pittorica del farmacista locale Alfeno Liboni.
Giulia Damiani e Le Nemesiache
Costume di Didone non e’ morta (1987)
pelle, metallo, perline
Copricapo Eliogabalo, cerchietti, Maschera Aristotele, occhiali di Lina Mangiacapre (1978-1987)
plastica, pelle, metallo, perline, tessuto
Matrice ciclostile, Album foto, cartellina documenti e libri (1978-1990)
cartaceo e metallo; 19 foto, 17 articoli, 5 libri, 1 matrice ciclostile
Manifesto Cenerella 1975 (1975)
cartaceo
Giulia Damiani è una scrittrice, ricercatrice, curatrice e drammaturga di base a Londra e Amsterdam. Dal 2013 ricerca la pratica artistica e politica del gruppo femminista di Napoli Le Nemesiache, collaborando con il gruppo e vari artiste. Fondata da Lina Mangiacapre nel 1969, l’attività delle Nemesiache si è basata sulla psicofavola, una metodo di autocoscienza che le ha portate a sperimentare con il corpo, il mito e in rapporto con elementi del loro paesaggio per ritrovare un senso di appartenenza e di azione nella realtà.
Il lavoro di Giulia Damiani con Le Nemesiache continua un investimento in profondità in un paesaggio femminista, sia localizzato che cosmico. L’intenso rapporto di ricerca e l’approccio performativo alla storia del gruppo mantengono viva la promessa di momenti di intimità eruttiva e di danza, promessa racchiusa nei materiali artistici dalle Nemesiache. L’azione ritualizzata del gruppo a Napoli, attraversando i confini del corpo nel paesaggio, ha ricercato e reimmaginato corpi e elementi urbani e naturali. Le Nemesiache cercavano indizi per far finalmente tremare l’apparato culturale e politico, estrattivo e patriarcale. Il lavoro mostra come abbiano trovato tracce vulcaniche, templi, rocce e industrie abbandonate, portandoli insieme in una danza continua e generando una comprensione esplosiva e porosa di corpi e luoghi.
Questo progetto speculativo di mostra e narrazione ad alta voce parla del metodo della psicofavola come di un processo lento di apprendimento con il gruppo, intimo e trasformativo; così come del tentativo di metterla in circolazione e farla vibrare oltre. Nello spazio sono presenti frammenti e materiali prodotti dalle Nemesiache negli anni 70 e 80 come documenti originali, manifesti, fotografie, video, costumi e materiali in tessuto che parlano delle loro azioni politiche e creative. Gli oggetti in mostra provengono dall’Archivio Mangiacapra.
Miriam Cahn
O.T. (2012)
olio su tavola
Collezione de Iorio
Miriam Cahn (*1949 – Basilea, Svizzera) è considerata una delle figure femminili più interessanti dell’arte contemporanea svizzera. Il suo lavoro si basa sull’immagine del corpo, e più precisamente sulle condizioni in cui questa immagine appare: il modo in cui emerge e scompare. Nei suoi mondi pittorici, l’artista svizzera spinge per l’abolizione delle norme sociali e contrasta la rappresentazione tradizionale della donna e dei ruoli specifici di genere. Il diafano e lo spettrale caratterizzano l’essenza del suo approccio figurativo, che comprende pittura, disegno e fotografia.
Mohamed Abdelkarim
How do we call things by their names? (2021)
Colonna sonora 2:51 minuti, 2 posters
La lirica scritta/parlata contempla, problematizza e ridefinisce la “Modernità”, la sua forma di linguaggio e di discorso porta ed espande le implicazioni sociali e politiche per il disastro futuro come supposizione post-planetaria. Impiega e riflette su atti performativi come narrare, cantare, rilevare, fare, romanzare e recentemente speculare. Il suo recente progetto ombrello si concentra sull’agenzia del paesaggio come testimone di “una storia che abbiamo perso e un futuro che non abbiamo ancora frequentato”.
Poster design di Engy Mohsen
Voce di Brian Cole
Simon Asencio
Reading at Random, Or Turning The Page (Or Singing Out of Doors)
(2021)
testo, stampa digitale e ricamo su tessuto
Reading at Random or Turning The Page (Or Singing Out of Doors) è una partitura di lettura a quattro voci, basata su un saggio incompiuto di Virginia Woolf dal titolo Anon. Questo poema in prosa racconta la storia millenaria di un protagonista, Anon, il cantante anonimo, che parlava a un pubblico altrettanto anonimo. Il racconto di Anon invoca figure, personaggi e miti di un altro tempo – un tempo precedente alla formazione dell’autrice – per rivalutare l’importanza delle donne e degli uomini comuni nella storia della letteratura e delle forme poetiche.
Il saggio tentato da Virginia Woolf è un’opportunità per immaginare il testo come una tecnologia in grado di dissolvere l’autorità dell’individuo e di suggerire un’agenzia collettiva nella scrittura e nella lettura. Composto da bozze e trascrizioni dei manoscritti originali di Anon, lo spartito è stato annotato con ricami e accompagnato da scrittori contemporanei (Samuel R. Delany, Alina Popa, Octavia Butler, Ursual K. Le Guin, Tim Ingold) nel tentativo di perseguirne il progetto e lo studio.
Robin Hood, Hugh Latimer, The Elizabethans, Lancelot et al.
(2021)
serie di abiti fatti a mano
La partitura Reading at Random or Turning The Page (Or Singing Out of Doors) è attivata come lettura comunitaria, una situazione che si colloca tra un gruppo di lettura, uno spettacolo teatrale senza attori e un gioco di ruolo dal vivo. Questo corpus in continua crescita di indumenti fatti a mano e pronti all’uso invoca la comunità di personaggi di supporto narrati nel testo Anon di Virginia Woolf e suggerisce la possibilità di una loro incarnazione provocatoria.
Flute [The Vain Dreamer (1765)], Flute [Villion’s Good Night (1887)], Flute [Song of the Beggar (1620)]
(2021)
ceramica inchiostrata
Questa serie di strumenti a fiato rende omaggio alle canzoni cantate anonime raccolte da John S. Farmer. L’antologia di Farmer prende il titolo dalla Musa Pedestris: la musa errante la cui poesia è quella della prosa e del linguaggio comune, suggerendo che lo slang, il cant e le fraseologie vernacolari sono le radici della forma poetica. Questi strumenti sono pensati come ausili per coloro che hanno perso la capacità di cantare, per coloro che non possono più imitare la voce degli uccelli.
Hugh Latimer era un sacerdote. Si unì a un gruppo di riformatori che si incontravano regolarmente alla White Horse Tavern per discutere le nuove dottrine di Martin Lutero. La sua fervente predicazione riformista in lingua inglese lo portò al rogo. “Quando Latimer diceva la preghiera del Signore in inglese, metteva l’inglese in alto. Lo stava salvando dalla porta di servizio. Insegnava ai nobili e ai contadini a rispettare la loro lingua madre [e forniva] ai vecchi menestrelli una nuova vita”.
Vanja Smiljanić
Labyrinth-rider (in a search of Atlantis) – (2022)
Tecnica mista: Labirinto 3D in legno MDF tagliato a CNC, bracci in filo di ferro attaccati alla colonna; colonna bianca su ruote; tuta verde in spandex.
colonna; colonna bianca su ruote; tuta verde in spandex.
concetto sviluppato in collaborazione con Barbara Boninsegna e Simone Frangi
C’è un labirinto.
Il suo nome ufficiale è ‘Past Life Therapy Machine’.
È uno strumento progettato per essere manovrato.
Sia formalmente che fisicamente, è un labirinto di concezione tridimensionale con la funzione di rompere la linearità del tempo attraverso un modus operandi spirografico.
Il modo in cui il labirinto è costruito permette al labirintista di impegnarsi con esso su tre livelli diversi: macro, meso e micro, allo stesso tempo.
Carichiamo il labirinto e qualifichiamo i suoi principali blocchi di costruzione con tre personaggi.
PRIMA, entriamo nel labirinto.
Poi, raggiungiamo il centro.
Poi, con un movimento speculare, usciamo dal labirinto.
Ci godiamo il viaggio.
“The tool” from the Labyrinth riders (Disremembering Atlantis).
Nella dimensione 0 è un punto.
Nella 1a dimensione è una linea.
Nella 2a dimensione è una forma.
Nella 3a dimensione uno strumento.
Ci soffermiamo qui per un momento.
Nella 3° dimensione nel 360 a.C. Platone scrive i dialoghi “Timeo” e “Crizia” dove introduce per la prima volta il concetto di Atlantide. Si tratta di un’isola al di là delle Colonne d’Ercole popolata da feroci guerrieri.
Egli crea un impulso iniziale che sfugge al suo controllo e cambia drasticamente il corso dell’immaginazione umana.
Ingrandimento.
Nella quarta dimensione il tempo entra nell’equazione.
Nella 5a e 6a dimensione nasce la nozione di mondi possibili.
Nella settima abbiamo accesso ai mondi possibili che partono da condizioni iniziali diverse.
Ci soffermiamo qui per il tempo.
Platone, filosofo greco, e Donovan, cantautore scozzese, diventano anime gemelle.
È qui che inizia la storia.
Alessandra Ferrini
My Heritage? (2020)
installazione audiovisiva (tv monitor, due drappi in tessuto polyester)
Dettaglio installazione site specific, Istituto Italiano di Cultura Marseille. Fotografia di Jeanchristoph Lett. Per gentile concessione dell’artista.
My Heritage? è un intervento site-specific all’interno del vestibolo dell’ex Casa d’Italia di Marsiglia, inaugurata nel 1935 e oggi sede dell’Istituto Italiano di Cultura. L’installazione si concentra sul contesto storico e ideologico che l’edificio incarna: l’intensificazione delle aspirazioni imperiali fasciste che culminarono nella fascistizzazione della diaspora italiana e nell’istituzione dell’Impero nel 1936, a seguito dell’occupazione dell’Etiopia. Poiché la Società delle Nazioni non intervenne in una guerra che coinvolgeva due dei suoi membri, la cosiddetta Crisi Abissina diede origine a una serie di conflitti che alla fine portarono alla Seconda Guerra Mondiale: un “effetto a cascata”. D’altra parte, l’attacco all'”ultima cittadella dell’uomo nero” (Ras Makonnen), insieme alla brutalità della guerra italiana, provocò ampie proteste e sostegno alla resistenza etiope, soprattutto da parte dei movimenti panafricani.
Belinda Kazeem-Kamiński
To let them know what we think about them (2021)
tre bandiere in tessuto
In collaborazione con Baba Issaka
L’installazione è composta da tre bandiere Asafo che Belinda Kazeem-Kamiński ha creato insieme al famoso fabbricante di bandiere del Ghana Baba Issaka, che riprende la tradizione di creare bandiere tessili commemorative e cerimoniali. Gli Asafo – che si traduce con “il popolo della guerra”, da sa, “guerra”, e fo, “popolo” – erano organizzazioni tradizionali di guerrieri che si occupavano della difesa e del benessere delle loro comunità. Ogni Asafo aveva un proprio nome, numero, regalia, santuario e bandiera e i suoi membri avevano ruoli ben definiti. Le bandiere degli Asafo erano i simboli delle comunità che le detenevano, ma anche una metafora visiva di ciò che legava i loro membri, sia esso un evento storico, una scena fondamentale o un aforisma. Le bandiere in mostra sono state create con questa funzione: commemorare gli artisti dell’Africa occidentale portati a Vienna, andando oltre le rappresentazioni presenti nell’archivio coloniale. Belinda Kazeem-Kamiński ha scelto tre scene da tradurre in tessuto: il ritratto di una ragazza tratto da quella che si pensa essere una fotografia di Peter Altenberg, una mano che tiene un uccello Sankofa e una mano che tiene una nocciolina (dorata). L’arachide, una pianta la cui storia si interseca con la storia della schiavitù, si riferisce qui anche alla parola austriaca “Aschanti”, usata per indicare le arachidi e che originariamente era la traduzione tedesca di “Asante”, cioè il popolo del Regno Asante nella regione dell’odierno Ghana. L’uccello Sankofa è un’immagine fondamentale nella diaspora africana: mentre cammina verso il futuro, a volte portando un uovo nel becco, guarda indietro per non dimenticare ciò che è accaduto, per tenere sempre presente ciò che è venuto prima e per costruire un futuro.
a cura di Simone Frangi e Barbara Boninsegna
curatela esecutiva Maria Chemello
Allestimento a cura di Antonello Marzari, Giacomo Vittone, Elisa Pezza, Alex Carnevali ed Elisa Bianchini
Light Design a cura di Fabio Sajiz